Neve ridens
Album, Mescal (2005), MES 520479 2
L'urlo (Novembre 2005)


Compri il cd ed in copertina c'è un'immagine astratta che sembra il profilo di un viso, con sullo sfondo una parte di testo scritta in Latino. Lo apri e sorprendentemente ti specchi sul retro del libretto interno che è argentato; poi scegli se preferisci specchiarti nitidamente sul compact disc vero e proprio o di fianco, preferendo il riflesso pedissequo coi colori ma sfocato coi tratti del volto.
piazzato, stupito e incuriosito apri il libretto che dopo quattro pagine bianche ti riserva (solo?) i testi dell'album sovrapposti l'un l'altro fintantoché rimangano leggibili solo spezzoni di alcune frasi.
Scusate se mi sono dilungato così tanto in questa descrizione. No non mi sono confuso tra la forma e il contenuto ma mi sembrava che non ci fosse niente di meglio che questa metafora (o sineddoche fate voi), per raffigurare quest'ultimo lavoro del partenopeo ma fiorentino d'adozione Marco Parente.
La musica di Neve Ridens (scritto con una sottile linea a mo' di cancellatura sulla seconda parola), difatti, sfugge agevolmente alle catalogazioni, rende imprecise le descrizioni e insicure le valutazioni perché non è semplice, e anche dopo numerosi ascolti ci si accorge che la strada per una completa comprensione è ancora lunga.
Non che, stavolta, il Nostro abbia poi cambiato stile ed obiettivi più di tanto, e chi conoscesse anche superficialmente le sue precedenti uscite discografiche può confermarlo.
Come sempre ascoltando le sue opere si è trascinati da fiumi in piena in paesaggi oscuri e tenebrosi pieni di insidie improvvise, dove spesso la regola si fa anti-regola, e la decostruzione del motivo orecchiabile splende al suo parossismo riformando armonie insospettate.
Quest'album è breve ma forse non troppo, data l'intensità e considerando che è il primo capitolo della duologia che si completerà il prossimo febbraio con l'uscita di un altro Neve Ridens (stavolta con la linea di cancellatura sulla prima parola). Come dite? Questa è una scelta anticommerciale? Beh questo lo hanno capito un po' tutti che lo conoscono almeno un po'.
La sua è musica aulica, è cantautorato trasversale tra generi come la musica sinfonica. il rock, l'elettronica, il jazz e chi più ne ha più ne metta. L'artista dal canto suo oltre ad essere istrionico e geniale non fa mai niente per ingraziarsi pubblico, ovvero: mai, e dico mai nessun compromesso d'alcun genere.
Spesso nel caso di molti autori dell'underground a me sconosciuti è capitato chi mi mettesse d'avanti ad un netto: O lo ami, o lo odi; in questo caso io devierei su un più congruo: O lo ami, o non lo capisci. Scusate ma d'avanti ad una così potente vena creativa perlopiù incompresa, sottovalutata e a volte persino osteggiata non si riesce a rimanere freddi arbitri bipartisan.
Ma veniamo a questo full-lenght. Si parte e la sua voce, accompagnata da un benjo e un piano ripetitivi quasi ad ipnotizzarti, ci fa rinsavire dicendo: Wake up perché ci stanno "rubando la macchina", "uno specchio" ed altro ancora (che sia forse il testo un ironico, ma non troppo, libello anti-consumista?); poi per un attimo ci sospende su quella che sembrerebbe, in parte, una citazione dell'opera dodecafonica "L'Egitto Prima Delle Sabbie" di Franco Battiato, per riprendere, infine, con il ritmo sostenuto dell'atipica cantilena di cui è fatto quest'intro.
Poi la rabbia contro l'attuale scena politica di Amore O Governo sembra non potersi sfogare se non in una breve parentesi caotica e un po' dinoccolata nel mezzo del più rassegnato sguardo pessimista dove addirittura "la terra si scioglie".
Nel Posto delle Fragole l'atmosfera è frizzante, il suono piuttosto diretto e reso dolce da rotondità pop, e proprio come nella pellicola capolavoro di Ingmar Bergman, gli affetti -presumibilmente quello di una coppia dato che il testo dice: "solo io e te nel posto delle fragole" - riusciranno a salvarci da un più o meno definito male di vivere.
La quarta (Un Tempio) è una ballata morbida dove Marco Parente ci dice che ha "bisogno più di essere che di esistere" e passando per la parola anarchia sembrerebbe poi, volerci ricondurre a quell'unità indistinta e libera di cui tutti facciamo parte, accompagnando il tutto con uno xilofono che porta a ben sperare.
Poi è la volta di Lampi sul Petto forse la più in linea con lo storico stile del Nostro, dove sono di casa cambi di tempo da far pensare ad un vero e proprio patchwork di più brani, fino alla delirante seconda parte dove un sax impazzito si accapiglia con un isterico piano (che fa molto Radiohead) fungendo da accattivante sfondo ad un soave coro.
Anche in questo pezzo si rinomina l'onnipresente specchio che, essendo "amore sprecato", stavolta non riflette; e poi, sempre nello stesso testo, rieccoli comparire -gli specchi appunto- che ora formano un "lungo fiume". In Io Aeroporto il piano staglia all'orizzonte un paesaggio tetro fino al ritornello che come un decollo ci fa sentire più "leggeri", per effettuare però un atterraggio di fortuna su un mare di acido lisergico.
Il settimo pezzo s'intitola: Colpo di Specchio (come di nuovo lo specchio? Direte voi) ed è la traccia più lenta.
Comincia con un arpeggio ben ponderato di chitarra, poi le note di piano centellinate sovrapposte ad un cupo xilofono ricamano un tappeto dall'aspetto solenne per un testo - per altro in linea con tutto l'album - piuttosto ermetico dove a farla da padrona sembrerebbe l'attesa, rivolta anche a noi dato che il Nostro ci dice che "tra la gente" aspetta "che la gente." e "seduto tra la gente" aspetta.
Il disco si conclude con Trilogia del Sorriso Animale: III Sorriso che non poteva che (non)concludersi improvvisamente.
Chissà se anche a febbraio non si (ri)inizi improvvisamente, completando quest'opera che si rinnova ascolto dopo ascolto ma che rispetto alle precedenti forse non ci sazia a sufficienza.

Stefano Ialenti (iale81@libero.it)

se la bellezza è un coltello.. scolpisce un nuovo bersaglio